Di Mario Maresca
Il titolo di questo articolo è una frase famosa, anche se un po’ rimaneggiata: il classico intercalare di Sherlock Holmes, investigatore dall’acume sublime e dall’eccellente spirito di osservazione, quando spiegava al suo amico, il Dr. Watson, come fosse arrivato a determinate conclusioni, partendo da indizi scarni. Il personaggio inventato dall’estro di Sir Arthur Conan Doyle incarna perfettamente l’archetipo dell’essere umano super-intelligente e che non sbaglia mai. E che è una pura invenzione, non esiste!
Mi spiegherò meglio…
Prima di continuare a leggere queste righe, fermati, togli gli occhi da questo scritto e rivolgili fuori, magari attraverso una finestra, verso la natura. Spero tu ne abbia un po’, almeno uno spicchio da poter guardare. Ora ti chiedo: vedi linee rette? Non parlo di strade, palazzi o case… Osserva: per caso, gli alberi crescono perfettamente dritti? I loro rami, le loro foglie? Gli animali, inclusi noi umani, sono fatti di rette? Le montagne, i fiumi? Nulla di tutto questo ha linee rette. La natura fa raramente linee rette: alcuni spigoli di pochi minerali e i raggi di luce, e anche su questo ci sarebbe molto da discutere… Tolti questi, non c’è molto altro che la natura costruisca in modo retto.
Ora pensa ai manufatti degli umani: quelli sì che sono pieni di rette. Costruzioni, anche mirabili, fatti di rette. La maggior parte dei mobili e molti utensili, sono costruiti con linee rette. Infatti, il pensiero degli umani tende a essere lineare: “Da A si va a B, e il percorso più breve tra questi due punti, è una retta.” È una questione di risparmio, di comodità. Alla fine dei conti, è semplice!
Se però pensiamo agli oggetti che costruiamo e che devono interagire con qualche fenomeno naturale, ecco che tornano le curve: le automobili, per esempio, tendono ad avere linee curve perché devono interagire con l’aria, per essere aerodinamiche, rendere la guida più sicura, oltre che farci consumare meno benzina.
Al netto di tutto, gli umani tendono a ragionare per linee rette mentre la natura non ne contiene. Crediamo che le conclusioni a cui arriviamo siano ineluttabili, senza considerare che la nostra percezione del mondo è spesso vaga e insufficiente, quanto l’elaborazione dei suddetti dati è parziale. Se leggete i gustosi romanzi con Sherlock Holmes, vedete che tutte le sue catene di inferenze, di causa-effetto, possono prendere strade differenti da quelle che prende lui. E tutte sarebbero plausibili.
Inoltre, come umani, tendiamo a pensare che tutti gli altri con cui interagiamo condividano gli stessi percorsi mentali diritti a cui ci rifacciamo noi. Vien da sé che tantissimi errori di giudizio, dissidi e la maggior parte delle incapacità gestionali nella nostra vita accadono proprio per questi scomposti tentativi di iper-semplificare una realtà che è molto, ma molto, meno semplice e più ingarbugliata di quanto ci piacerebbe che fosse.
La maggior parte dei casi di coaching con cui mi sono confrontato nella mia carriera, rientrano in questa erronea tendenza umana a pensarsi in una realtà basata su moti rettilinei uniformi, su percorsi in buona parte prevedibili e, per questo, controllabili.
Penso che noi coach dovremmo essere tra i professionisti che, ben preparati, aiutano i propri clienti a sviluppare (a volte a creare del tutto) questa capacità di “(ri)pensare a come pensano”. Chi vuole usare paroloni, la chiama Metacognizione. Potremmo essere quelli che aiutano le altre persone a capire che il mondo è molto meno elementare di quello che ci piace credere. Che le risposte immediate possono essere magari utili per ridurre un sintomo tanto fastidioso quanto evidente, ma non per forza annullano ciò che l’ha causato. E se non abbiamo annullato la causa, è solo questione di tempo e il sintomo si ripresenterà, magari sotto forme differenti e fantasiose.
Dovremmo aiutare a mettere ordine nella quantità di informazioni che esistono e che non possiamo (e che a volte non vogliamo) vedere perché sono fuori dalla nostra “retta” visuale: che l’inestricabile conversazione tra l’esperienza emozionale e quella razionale molte volte crea confusioni pratiche nelle nostre facoltà quotidiane di attenzione, acquisizione di informazioni, memoria, ragionamento, processo decisionale, empatia e regolazione dell’aggressività.
Sono particolarmente felice del recente premio Nobel per la Fisica attribuito a chi ha approfondito le dinamiche della Complessità, tra cui l’eccellenza italiana Giorgio Parisi. Spero che sia l’inizio di una maggiore attenzione e presa di confidenza con cose che, seppur non-elementari, possono essere imparate e gestite nella vita di tutti i giorni: quantomeno far pace con il fatto che per fare bene, dobbiamo cercare meglio le risposte che non sono a nostra immediata disposizione. E in questo, noi coach possiamo dire la nostra.