Fin dall’inizio, quando facevo la coach, e poi ancora quando ho cominciato ad essere una coach, ho sempre pensato: “finalmente, qui l’età conta!”.
Avendo a che fare con 45/60enni e oltre (il genere era ininfluente) che volevano sentirsi più efficaci nel loro lavoro, scoprire le gioie della delega o riuscire a ritagliarsi quel famoso tempo di vita personale, a mia volta riconoscevo che confrontarsi con una professionista matura li metteva a loro agio. Spesso lo dicevano subito: ah! meno male che -scusi eh!- questa volta l’azienda mi mette a lavorare con una persona non giovanissima, almeno mi capirà meglio.
Non ho iniziato da qui a essere consapevole della mia identità di persona o di coach: sicuramente questa presa di coscienza mi ha aiutato in ogni fase della mia carriera professionale a definirne l’importanza.
Si fa presto a dire “sii te stessa”, “non devi interpretare il ruolo del coach, devi esserlo”. Ma come si arriva ad essere la persona, il professionista con una sua solida identità?
Probabilmente si comincia presto, da ragazzi, comprendendo cosa gli altri si aspettano da noi, quanto vogliamo aderire alle aspettative altrui, quanto coraggio abbiamo per comportarci come riteniamo meglio per noi. Però una cosa è capire, un’altra cosa è agire.
La mia vita lavorativa mi ha regalato tante occasioni di apprendimento in tanti settori diversi, il mio carattere curioso mi ha permesso di coglierle. Vengo dal marketing, che come disciplina mi ha sempre affascinato, perciò ho imparato presto che reputazione e immagine potevano contribuire fortemente a costruire l’identità che, pur potendo cambiare nel tempo, avrebbe costruito le mie solide fondamenta. Walk as you talk – predica e razzola allo stesso modo: un motto che mi ha accompagnato sempre.
Uno però può rendersi conto in qualsiasi momento dell’importanza della propria identità, guardarla da fuori, oltre che dall’interno, esaltarne le qualità e renderla convincente. Ma allora si può anche costruire un’identità artefatta? Certo che sì. Di furbetti è pieno il mondo. Penso però che poi gli altri sgameranno la falsità e questa identità diventerà ridicola e inconsistente. Continuiamo dunque a parlare di identità sincera.
Una volta acquisita la consapevolezza, anche modificandola nel tempo e secondo i cambiamenti di vita, la propria identità diventa amica. Io sono questa, con i miei pregi, le mie capacità, i miei difetti accettati, quelli migliorabili, e via così. Cosa voglio dal mondo? Cosa offro? Cosa mi viene facile? A cosa preferisco rinunciare? L’identità – a mio parere – è quell’insieme di comportamenti, competenze e attitudini che permettono di risultare affidabile, responsabile, capace verso le persone con cui decidiamo di relazionarci.
Continuo ad agire come vorrei che mi vedessero gli altri, cercando di non piegarmi a richieste che trovo inattuabili, faticose. È tutto un provare e vedere come butta: se mi piace, resto; se non mi piace, vado. Perché l’identità è mia, l’ho costruita io, e la gestisco io. 😀
Dunque le mie radici nel marketing, le mie precedenti immersioni in dinamiche relazionali di grandi aziende internazionali, dove diplomazia e determinazione erano fondamentali, mi hanno permesso di costruire due grandi moduli identitari: quello della comunicazione e quello dei modelli relazionali. L’accumulo di queste esperienze, unito alla collezione di situazioni esterne portate dai molti coachee (leader, manager, team) che ho incontrato negli anni, come tanti mattoncini lego mi hanno aiutato a modellare l’identità di oggi. Che è cambiata nel tempo, che cambierà ancora.
Le mie conclusioni sono quindi chiare e semplici: tra le abilità di un coach metterei in posizione dominante l’età, le esperienze raccolte, e dunque una solida e visibile identità. Meglio lavorarci da piccoli.
Marina Fabiano