Come la biografia professionale del coach influenza il suo coaching.
Ho iniziato lavorando in pubblicità: per quasi vent’anni ho fatto il copywriter, il creativo, il comunicatore. Poi, nella maturità della mia vita professionale, mi sono dedicato alla formazione manageriale e al coaching. Un prima e un dopo molto diversi, in mondi molto distanti fra loro.
All’inizio pensavo che questi due mondi fossero separati.“Ora che faccio il coach ho chiuso con la comunicazione” pensavo. Come fossero due momenti diversi della mia vita, assolutamente non comunicanti. Nel tempo, mi sono accorto di quanto sono comunicanti…
L’elemento comune di questi due capitoli della mia vita professionale sono le parole, la forza e la precisione delle parole. Mi sono guadagnato da vivere prima grazie alla parola scritta (il copywriter) poi grazie alla parola detta (il coach). E il primo mondo, con gli anni, è irresistibilmente filtrato nel secondo mondo…
Non è un caso che, a livello tematico, mi trovo spesso a fare coaching a manager che hanno problemi di comunicazione interpersonale; ma anche problemi di comunicazione uno-a-molti: parlo di tutta l’area del public speaking e del corporate storytelling, terreno su cui posso essere utile a qualcuno proprio perché vengo dalle esperienze da cui vengo.
E poi c’è un’influenza anche su “come” faccio coaching: scelgo con facilità, fra gli strumenti del coach, quello della scrittura: esercizi e pratiche di scrittura per aiutare il coachee a esplorare il suo mondo interiore, a capire meglio se stesso, ad avere nuove intuizioni. La scrittura è sempre stato un mio mezzo espressivo (il copywriter scrive) e in più ho sperimentato su di me la forza terapeutica della scrittura sin da quando ero giovane. E’ inevitabile trovarmi a proporla, quando lo sento opportuno.
E ancora: per me è stimolante, durante una sessione, utilizzare a volte strumenti più visivi e “creativi”, come l’uso delle immagini o delle metafore. Parlo del coaching fotografico o dell’uso di carte e immagini come strumento che accelera il processo e le intuizioni del coachee. La pubblicità, il mio vecchio mondo di provenienza, è un mondo tutto fatto di immagini, di metafore, di storie, con una forte influenza emotiva e suggestiva. Questa modalità mi viene facile e naturale perché questo tipo di “linguaggio” era già il mio linguaggio, ancora prima di iniziare a fare coaching.
All’inizio queste “trasfusioni” di linguaggi, sensibilità, mentalità, mi sembravano sospette, dato che le scuole di coaching che abbiamo frequentato ti allenano a “non mettere nulla di te”. Per questo all’inizio ero in cerca di una sorta “purezza” nel mio modo di fare coaching. Purezza che, nel tempo, mi è apparso un elemento sempre più astratto che, infine, è sfumato sullo sfondo.
E’ vero che nel coaching non porti i “tuoi contenuti” ma è altrettanto vero che senza quelle esperienze professionali, umane, esistenziali che hai distillato in una vita intera, difficilmente riesci a innescare una relazione profonda e utile con un cliente.
Ogni giorno, che ce ne rendiamo conto o meno, portiamo nelle nostre sessioni di lavoro tutta la sensibilità, la concretezza, la creatività, il pragmatismo appreso in altri mondi professionali, in altre epoche della nostra vita. Perché, alla fine, è proprio vero che non si butta via niente. Anzi, secondo me l’abilità sta proprio nel prendere la nostra esperienza di vita (unica e diversa da tutte le altre vite) e trovare il modo più creativo per “riutilizzarla”, cioè per renderla utile per un altro essere umano: per aiutarlo a fare un passaggio, a uscire da una strettoia, a fargli vedere qualcosa che prima non vedeva…
Il coaching, da questo punto di vista, è uno straordinario laboratorio anche per il coach: perché è un meta-metodo, un contenitore di pratiche e processi dentro cui sperimentare creativamente a seconda del contesto e della persona che hai davanti. Ma anche a seconda di chi è il coach, delle sue attitudini e della “ricchezza” che porta.
Per queste ragioni mi rendo conto sempre meglio che far avanzare la mia pratica di coaching significa per me andare in due direzioni opposte: spingersi in avanti in cerca di nuovi stimoli ed esperienze di formazione specificamente di coaching. E, contemporaneamente, tornare indietro: a chi sono io, da dove vengo professionalmente, al mondo che mi ha formato, a quel serbatoio di esperienze che “fa di me proprio me”. Perché lì ci sono le radici della mia unicità e quindi della mia originalità anche nel modo di fare coaching. Ci ho messo alcuni anni per capirlo. E ogni giorno lo capisco meglio.
Chiudo con una serie di domande (strumento elettivo del coaching) per innescare una riflessione aperta a tutti:
Quali sono le mie unicità nel mio modo di fare coaching?
Da dove vengono?
Quando e come le ho maturate?
Come posso, sempre di più, portare me stesso nel mio coaching?
Come posso avere più coraggio nel farlo?
Più tutte le altre domande che vi verranno in mente e che hanno valore per voi…
Guido Poli – Facilitatore Cpc Compagnia del Destino