IL COACHING E LA PA:

IL COACHING E LA PA:

UN INCONTRO INNOVATIVO CHE PRODUCE CAMBIAMENTO DIFFUSO

a cura del Team coaching della Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA)

 “Esistono esperienze aziendali che hanno il potenziale per ispirare le soluzioni organizzative del futuro”. Maria Elisa Mastinu, Facilitatrice della CPC Bologna2, ha partecipato ,insieme ad altri professionisti, ad un percorso  di coaching  dedicato ai dirigenti della Pubblica Amministrazione

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Sviluppo & Organizzazione e noi lo riportiamo sotto nella sua interezza.

Il mondo della pubblica amministrazione è storicamente indietro in tema di management rispetto al mondo privato. Tra le cause di tale condizione sono da segnalare l’estrema complessità del contesto normativo di riferimento; un articolato sistema di controlli che produce un effetto ansiogeno spesso bloccante (la cd. amministrazione difensiva; la carenza di strumenti gestionali e di potere reale dei dirigenti; processi selettivi che premiano quasi esclusivamente le conoscenze (quelle giuridiche in particolare) e ignorano le soft skills, da tutti considerate il vero fattore di successo dei ruoli manageriali; sistemi formativi non sempre orientati al rafforzamento delle competenze necessarie per coprire il ruolo e rendere efficaci i percorsi di carriera. La conseguenza inevitabile è stata l’addossare alle persone e alla loro buona volontà la responsabilità di far funzionare la macchina amministrativa. All’amministrazione pubblica non resta che contare sulle persone e sulla loro disponibilità ad agire comportamenti utili a prescindere dalla complessità del contesto sopra descritto. In quest’ottica la PA risulta fortemente dipendente dalle persone, dai singoli e dalle loro “curve di utilità”, ovvero dal loro personale desiderio di contribuire, rendendo l’azione manageriale estremamente difficoltosa, molto più complessa rispetto al leggendario e luccicante mondo privato. Sono le persone che alimentano la PA, non la PA che guida le persone. Ecco però una bella storia, un bel caso che dimostra come si possa avere fiducia e si debba sperare in una nuova PA. Su iniziativa del Capo Dipartimento del Personale di Presidenza del Consiglio dei Ministri (PCM), la Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA) ha voluto avviare un innovativo progetto

Il Team coaching SNA è composto da alcuni dei professionisti che hanno partecipato, come coach, al percorso di coaching dedicato ai dirigenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, realizzato nell’ambito del progetto di ricerca-intervento “Mappatura, valutazione e sviluppo delle competenze delle Amministrazioni pubbliche”. In particolare, si tratta di Raffaella Iaselli, Massimiliano Massaro, Francesca Pagliuso, Nadia Osti, Emiliana Alessandrucci, Elisa Mastinu, Mariangela Tripaldi, Edoardo Ercoli, Michela Pajola, Marina Cassoni. Il progetto è coordinato da Maurizio Decastri (responsabile scientifico) e da Sabrina Bandera (Servizio Ricerca SNA). Il percorso di coaching ha coinvolto, come tutor didattici, Mariella Astazi e Antonella Iasiello. [2] La Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA) è l’istituzione della Repubblica Italiana che si occupa di selezione, formazione e ricerca per i dirigenti e i funzionari della pubblica amministrazione centrale. La mission della Scuola si snoda su due direttrici principali a) assicurare un canale costante e altamente competitivo di reclutamento della dirigenza pubblica, tramite il corso-concorso, innovando i contenuti della formazione e i criteri di selezione; b) sviluppare una programmazione strategica incentrata sullo sviluppo di competenze, sull’innovazione delle metodologie didattiche e sulla formazione specialistica volta a disegnare una nuova e moderna amministrazione pubblica, anche in relazione alle sfide poste dal PNRR. di mappatura e analisi delle competenze, ossia un percorso che consentisse di mappare i ruoli apicali (posizioni coperte da dirigenti di prima e seconda fascia) e definire le job descriptions; realizzare i job profile connessi alle posizioni mappate; valutare le competenze manageriali dei titolari delle posizioni; identificare il gap tra competenze necessarie e competenze disponibili; disegnare un percorso di sviluppo individuale e collettivo e rafforzare le competenze più deboli. Il progetto rientra in un piano più ampio di rilancio e modernizzazione della pubblica amministrazione, che passa anche attraverso la ridefinizione delle competenze del dirigente pubblico. Certamente obiettivi ambiziosi, non facili da raggiungere, con evidenti aspetti culturali da affrontare e risolvere. In sostanza, un vero progetto di change management.

La mappatura e la lettura delle competenze

Un profilo di ruolo è definito come l’insieme delle competenze, delle motivazioni e dei valori necessari in

astratto per coprire in modo efficace una posizione. Le competenze, a loro volta, si suddividono in conoscenze tecniche (il sapere), esperienze (il saper fare) e attitudini (tratti di personalità che consentono di “essere”); tra queste componenti, le attitudini sono quella più delicata in quanto più difficilmente modificabile. Il profilo di ruolo può essere inteso anche come una sorta di “dima”, una forma ideale a cui occorre fare riferimento quando si seleziona e si sviluppa la persona che va a ricoprirlo. L’utilità e la rilevanza “teoriche” del profilo di ruolo sono immediate: se il titolare reale della posizione avesse le caratteristiche indicate nel profilo, sarebbe perfettamente aderente al ruolo e avrebbe la massima possibilità di agirlo con efficacia. In pratica, le amministrazioni dovrebbero fare il meglio per definire tali profili, selezionare le persone più “prossime”, soprattutto, accompagnare i titolari delle posizioni verso un percorso di miglioramento e sviluppo. Per giungere a definire il profilo di ruolo occorre costruire la job description, ossia intervistare con una metodologia strutturata il/i titolare/i della posizione. Nel corso di un colloquio che di regola può durare intorno ai 90 minuti, al titolare del ruolo sono chieste le aree omogene di attività previste, la descrizione delle singole attività e le modalità ottimali con cui tali attività sono da svolgere. Il documento che rappresenta i contenuti del colloquio viene successivamente presentato al superiore gerarchico per verificare se tutto corrisponde alle attese istituzionali e, eventualmente, corretto. Sulla base del documento condiviso, l’analista di organizzazione stende la job e l’esperto di psicologia organizzativa “traduce” i contenuti del ruolo in competenze, motivazioni e valori ideali. Si giunge così a due documenti: • un documento che contiene le aree di attività previste dal ruolo e la loro scomposizione in attività e responsabilità (la job description); • un documento che illustra in primis le competenze necessarie e, in particolare, le attitudini che il titolare della posizione dovrebbe avere per essere efficace. In secondo luogo, contiene le motivazioni e i valori coerenti con il ruolo nel suo complesso (il job profile). Tale documento diviene il riferimento ideale per consentire al titolare attuale e futuro di confrontarsi con le competenze, le motivazioni e i valori posseduti e avviare un percorso di apprendimento. Una volta definito il profilo di ruolo, è stato necessario valutare se il titolare possiede in tutto o in parte le caratteristiche ivi indicate. Si è passati così a utilizzare metodologie di assessment che consentono di “leggere” le competenze/attitudini espresse e latenti delle persone da valutare, nonché di evidenziare le motivazioni al lavoro e i valori sottostanti il comportamento (sono escluse dall’analisi le conoscenze tecniche, date per scontate).

Le metodologie disponibili, ossia quelle che hanno dimostrato in modo continuo e ripetuto risultati di elevata precisione, sono sostanzialmente due:

1. Assessment individuale: nel corso di circa tre ore di prove, il candidato è messo a contatto con situazioni e settings di diverso tipo (dal role play all’in basket, dalla riunione alla negoziazione simulate) e viene osservato da uno psicologo del lavoro. In tali situazioni, non esistono e non rilevano comportamenti “giusti” o “sbagliati”. L’oggetto dell’analisi sono le modalità con cui la persona reagisce agli stimoli del contesto, mostrando – ad esempio – approcci analitici o sintetici alla raccolta dati, schemi de lettura del problema più o meno ampi, sensibilità o meno verso l’ascolto, e così via. L’osservazione del comportamento consente allo psicologo di identificare le attitudini che portano a quella tipologia di azione e a definire il profilo della persona sotto esame.

2. Assessment tramite uno o più test on line. Negli ultimi anni, sono stati sviluppati test e batterie di test on line che consentono, con livelli di precisione assolutamente elevati, di analizzare e definire le competenze personali. Sono test che si basano sul concetto di “uniformità relativa”: i ricercatori hanno individuato in campioni molto numerosi (fino a 300.000 persone) dei collegamenti stabili tra alcune risposte ben definite e ripetute con la presenza di una o più caratteristiche di personalità dell’individuo. A ciò si aggiunga che le domande sono “non programmabili”, ossia non è possibile intuire l’esito e le conseguenze delle possibili risposte. Infine, è utile aggiungere che i sistemi di elaborazione risiedono al di fuori dei confini nazionali (di regola nel nord America), garantendo la totale non influenzabilità degli esiti. Tutto ciò porta a considerare tali test la forma più oggettiva di analisi e lettura delle competenze.

Migliorare la competenza grazie agli output dell’assessment

Il percorso di assessment ha previsto l’utilizzo di entrambe le metodologie e ha coinvolto circa 250 dirigenti della Presidenza del Consiglio, ossia una platea ampia e rilevante. Al termine dell’assessment ci si è posti domande molto pragmatiche: quali le coerenze/incoerenze della persona rispetto alla posizione? Quali le aree da rafforzare? Cosa devo fare, come devo muovermi per rendere la persona più efficace in quello specifico ruolo? Quali percorsi di apprendimento è utile avviare? Il tutto è oggetto di un colloquio di feedback in cui lo psicologo certificato procede alla restituzione ed elaborazione condivisa dei risultati. Al termine delle prime due fasi (mappatura e assessment), PCM ha avuto a disposizione tre set di documenti: le job delle posizioni mappate, i profili di ruolo e il profilo di competenze delle persone che coprono i ruoli mappati. Il confronto tra job profiles e profilo di competenze delle persone ha consentito di giungere alla terza fase, quella di sviluppo, e di individuare le aree in cui era necessario intervenire per rafforzare la persona e accrescere il grado di copertura della posizione. Dalle aree di miglioramento individuate si è desunto un percorso individuale e/o collettivo di formazione in senso lato. Tale percorso ha incluso occasioni e ambienti di apprendimento quali la formazione in aula, il coaching individuale, project work guidati, business games o altro che possa essere coerente con il fabbisogno segnalato. I segnali confortanti emersi durante e alla fine delle prime tre fasi sono stati molto numerosi e densi. Le interviste sono state accolte con sospetto (“Ho molto da fare, vero che finiamo rapidamente?”), poi sono diventate momenti interessanti (i tempi effettivi sono stati quasi sempre molto più lunghi dei tempi ufficiali). La stesura delle job è stata vissuta dapprima con curiosità, poi con soddisfazione (“Finalmente so che faccio e che fanno i miei colleghi”). La partecipazione agli assessment in presenza e via web ha suscitato qualche preoccupazione (“Ma la mia privacy? Cosa vogliono sapere di me e della mia personalità? Ma che domande fanno?”), ma – dopo le prime esperienze e le conseguenti “chiacchiere informali” – è diventata normale, in alcuni casi attesa con il desiderio di partecipare. I colloqui di feedback erano temuti come fosse un esame e si sono tramutati in luoghi di condivisione, di discussione costruttiva, di pensiero futuro. In sintesi, il progetto ha creato un’atmosfera altamente positiva e, contro ogni previsione, il progetto “gode di ottima stampa”. Le persone coinvolte sono tutte mediamente piuttosto dell’esperienza, ritengono il processo “faticoso, ma interessante e utile”, riconoscono l’utilità delle job, dei job profiles e dei profili di competenze, tanto che nessuno ha negato la propria disponibilità per la prosecuzione.

Dall’assessment al coaching.

Sul versante organizzativo, è stato possibile avere una panoramica del livello di possesso delle competenze dei dirigenti rispetto ad un profilo atteso e fare utili ragionamenti in termini di fabbisogni formativi collettivi; sul piano individuale, gli esiti dell’assessment sono confluiti in un report di sviluppo, che è stato illustrato ad ogni dirigente partecipante al progetto e che ha costituito il punto di partenza per i successivi percorsi di sviluppo e crescita. L’incontro di restituzione ha rappresentato un importante base di partenza per confrontarsi sui punti di forza e sulle aree di sviluppo verificando gli impatti nel contesto quotidiano di lavoro. Questa prassi è stata funzionale per focalizzarsi sui comportamenti che potevano essere potenziati, introdotti o dismessi. Tra le numerose iniziative formative proposte, alcune sono “soggettivamente innovative” e fanno immaginare un cambiamento non marginale nei percorsi di sviluppo della PA. Iniziative soggettivamente innovative poiché si tratta di metodologie conosciute da parecchi anni e usate in modo a volte intenso nel mondo privato, ma mai apparse nel catalogo della SNA. Iniziative che sono pertanto nuove per la PA (perlomeno a livello centrale). Ci si riferisce, nello specifico, a tutti i corsi che hanno per oggetto le competenze manageriali e trasversali, altrimenti dette soft skills. La Scuola ha così progettato e messo a disposizione dei dirigenti di PCM corsi di empowerment, di negoziazione, di comunicazione, di gestione dei conflitti, di gestione dell’incertezza, di improvvisazione teatrale, ossia un menu di luoghi di apprendimento piuttosto suggestivo per possibili futuri metodologici della formazione nella PA. Tra le metodologie di apprendimento proposte, particolare “suggestione” ha destato il coaching, un po’ per la curiosità tecnica, un po’ per la sottile ansia che ha creato in molti (una delle reazioni più colorate è stata: “Viene lo psichiatra a controllare il mio stato mentale? Posso chiedere anche dei farmaci?”). L’interesse e la curiosità si sono trasformati in domanda espressa e, per la prima volta, è stato avviato un percorso di coaching per una popolazione ampia, complessa e sofisticata, ossia per circa 100 dirigenti di prima e seconda fascia di PCM. Vista la delicatezza del progetto, si è proceduto per gradi. In una prima fase, il coaching è stato proposto a un piccolo gruppo di dirigenti. La metodologia formativa era nuova, poco conosciuta e apparentemente intrusiva. Non era scontato avere la disponibilità e la partecipazione psicologica dei possibili candidati. La fase sperimentale – durata un paio di mesi – ha avuto successo, le persone si sono dichiarate soddisfatte, in alcuni casi, entusiaste, molti hanno chiesto di proseguire il percorso. E, soprattutto, nelle chiacchierate e nelle call si è diffusa una “buona stampa” intorno al percorso formativo. Da novembre è stato riavviato il progetto e altri 80 dirigenti – con sorpresa di tutti… – hanno chiesto di partecipare. Questa larga accoglienza segnala un primo dato positivo che testimonia la volontà di mettersi in gioco e di sperimentare un approccio e una metodologia diversi dalla formazione tradizionale. Essa, inoltre, dimostra che l’aver impostato il piano di sviluppo personale sulla base degli esiti di un assessment gestito da professionisti di elevata qualità, con metodologie riconosciute a livello internazionale, è stato compreso e apprezzato, consentendo un livello di apertura che difficilmente avremmo avuto in condizioni diverse. La proposta di mettere a disposizione un professionista di valore e “certificato” per lavorare sui propri punti di forza e di debolezza – partendo da una rilevazione accurata del profilo di competenze e individuando le azioni e i comportamenti funzionali al potenziamento delle aree di miglioramento – ha avuto un’accoglienza molto positiva. L’atmosfera che si è creata, la professionalità messa in luce e la trasparenza dimostrata hanno permesso di procedere in modo più spedito e, soprattutto, di avere una disponibilità che non sarebbe stata possibile se si fosse seguito un iter differente.

Allineare valori, competenze e obiettivi

Il coaching è uno strumento per attivare processi di cambiamento e di ristrutturazione al fine di supportare persone, gruppi di lavoro, aziende ed organizzazioni a trasformare i propri obiettivi di crescita e di performance in risultati concreti e tangibili. Si configura come una relazione collaborativa tra coach e coachee che si focalizza sullo sviluppo di potenzialità e sulla costruzione di nuovi livelli di efficacia e di crescita personale (Kilburg, 1996, Wales, 2003). Si tratta di sessioni one to one in cui sono affrontati in modo libero e aperto i temi di sviluppo condivisi all’avvio del percorso. L’obiettivo principale è il rafforzamento delle basi comportamentali del coachee per rendere più efficaci le relazioni interpersonali, l’organizzazione del tempo e la gestione dello stress, anche puntando al miglioramento del benessere psico-fisico. L’allineamento tra competenze agite, valori e obiettivi individuali della persona e quelli dell’organizzazione di appartenenza di regola produce una maggiore soddisfazione e un più forte senso di appartenenza che rende le relazioni con i collaboratori più agili e fluide. Anche gli eventuali e inevitabili conflitti sono visti come un’opportunità e un arricchimento personale grazie alla possibilità di giungere alla sintesi delle divergenze in un’ottica costruttiva. Inoltre, anche sulla base delle indicazioni che emergono dall’assessment, si lavora per valorizzare una o più specifiche competenze (la gestione dei collaboratori, l’intelligenza sociale, la comunicazione, ecc.) e per ridurre l’ansia e affrontare con maggiore consapevolezza un cambiamento, quale, ad esempio, il dover ricoprire un nuovo ruolo. La relazione tra un coach e il suo coachee deve essere fondata sulla fiducia reciproca e sul rispetto personale e professionale: il coach aiuta il coachee nel raggiungere gli obiettivi desiderati e condivisi e nell’esplorare nuove prospettive rispetto a situazioni e/o persone, sperimentando nuovi approcci e rivedendo le abitudini non più funzionali. Questa ricerca implica una grande apertura psicologica e un rapporto di sostanziale fiducia tra i due: si creano le condizioni per l’apprendimento di nuovi modi di vivere il ruolo, nascono nuove consapevolezze sulla propria percezione e sulla propria interpretazione del mondo, emergono necessità di modifica del rapporto con colleghi, collaboratori, capi e l’organizzazione nel suo complesso, si palesa una diversa “narrazione” della propria vita professionale che permette di scoprire soluzioni inaspettate e di “uscire dalla scatola”.

Un itinerario di apprendimento e innovazione

Il percorso di coaching in Presidenza del Consiglio è stato avviato nel novembre 2020 e vede coinvolti come coach 15 professionisti certificati; per ogni dirigente, è previsto un totale di 8 incontri della durata di circa un’ora, di cui un incontro finale di verifica del percorso in cui può essere coinvolto il superiore gerarchico. Al fine di dare una sostanziale omogeneità dell’esperienza nel suo complesso, al di là degli stili personali dei diversi professionisti coinvolti e dei percorsi caratterizzanti i vari binomi che si vengono a creare, è stata predisposta una rigorosa metodologia standard e sono state programmate riunioni periodiche di monitoraggio con tutti i coach coinvolti. Il percorso ha avuto anche l’ambizione di raccontare uno spaccato della dirigenza pubblica da una prospettiva privilegiata, quella dei coach, che hanno condiviso con i manager pubblici obiettivi, motivazioni, e aspirazioni, supportando e guidando i comportamenti verso il raggiungimento dei risultati organizzativi. L’ascolto costante delle opportunità e delle difficoltà testimoniate dai dirigenti pubblici di una realtà complessa come quella di PCM ha permesso di arricchire e diversificare il punto di vista, sfatando miti e luoghi comuni che spesso impediscono una seria valutazione del cambiamento possibile nella pubblica amministrazione. E, come sempre accade quando si arricchisce la visuale in un incontro reale, vero, profondo con le persone e le loro storie, il discorso diventa complesso, le narrazioni stereotipate perdono di valore, non sono più soddisfacenti e nasce l’esigenza di nuovi modelli esplicativi (e di comunicare a chi vive di stereotipi la realtà delle cose). I coach hanno aiutato i coachee a esplorare nuove prospettive rispetto a situazioni e/o persone fonti di qualche disagio, sperimentando nuovi approcci e rivedendo le abitudini non più funzionali. Questa ricerca personale ha implicato un itinerario di apprendimento e di innovazione, nuove consapevolezze sulla propria percezione e interpretazione del mondo, suggerendo modifiche nella “narrazione” e assumendo nuovi punti di vista che permettono di scoprire soluzioni inaspettate. Lavorare sull’intelligenza emotiva e l’allineamento tra bisogni, valori e obiettivi individuali con quelli del team e dell’organizzazione di riferimento ha prodotto un maggior benessere che rende sia i processi, sia le relazioni con i collaboratori, più agili e fluidi. Anche gli eventuali e inevitabili conflitti sono stati visti anche come opportunità e arricchimento, grazie al tentativo spesso riuscito di sintetizzare le divergenze in un’ottica collaborativa. Il coaching ha consentito alle persone di confrontarsi con un itinerario di evoluzione, di affrontare e superare blocchi e credenze limitanti, di mettere in atto comportamenti funzionali, di concentrarsi sui processi e sui contenuti e non sui personalismi. Si sono scoperti così scenari e soluzioni inesplorati, si sono lentamente acquisite elasticità di valutazione, flessibilità, adattabilità al cambiamento, maggior efficacia e rapidità decisionale. Il risultato è stato frequentemente un migliore senso di efficacia e un passettino in avanti del benessere psico-fisico.

Nuove strategie comportamentali e nuovi processi gestionali

I dirigenti coinvolti hanno così espresso interesse e soddisfazione per l’iniziativa, trovandola utile per la propria vita personale e professionale. Per coloro che hanno lavorato continuativamente durante il Covid, il coaching ha anche rappresentato un ausilio necessario che ha permesso di fronteggiare un momento di notevole difficoltà fisica e psicologica, non esternabile ai colleghi e/o familiari, già sottoposti a un difficile impatto emotivo. La situazione stressante straordinaria e di eccezionale portata, soprattutto rispetto alla gestione del personale (soggetto a crisi di panico, ad attacchi di angoscia e a una serie di difficoltà legate alla situazione contingente) ha richiesto di mantenere la calma, di provare a infondere serenità e fiducia, senza far trapelare la tensione e senza far mancare l’ordinaria ed emergenziale gestione del Servizio e dell’Ufficio, neanche quando sono stati costretti a guidare le persone solo da casa, affetti da Covid o in quarantena. In questo quadro il coaching ha consentito di mitigare gli effetti delle stressanti pressioni psico-fisiche affrontate e subite nel lockdown, in famiglia e in ufficio, offrendo la possibilità di adottare un corretto e ragionato atteggiamento da assumere in ogni situazione. In questo senso, il coaching potrà risultare ancor di più necessario nel corso del “post Covid”, allorquando ci si troverà a diffondere nuove strategie comportamentali e a realizzare nuovi processi lavorativi e gestionali. Il coaching ha anche rappresentato lo stimolo a mantenere viva la motivazione al lavoro, in un contesto complesso caratterizzato a volte dalla limitata autonomia decisionale rispetto al ruolo ricoperto. Più in generale, il coaching ha rappresentato un’opportunità di confronto libero e stimolante, un po’ di “aria pura”, non contaminata dal quotidiano, un confronto con se stessi in primis, ma anche con un professionista esterno all’organizzazione che, in quanto tale, offriva una vista non influenzata dalle dinamiche interne. Diffusamente, è emerso in maniera forte il bisogno di raccontarsi e di trovare uno spazio di ascolto in cui ritrovarsi e da cui ripartire con nuovo slancio ed energia. Nella solitudine del ruolo e della pandemia, è stato un poter vivere una relazione non politica, non inquietante, senza esigenze di “fingere”. Per alcuni, anche il rimpianto di avere avuto accesso a questa possibilità solo ora, a un passo dalla pensione. Anche in questi casi, l’impegno e la disponibilità a mettersi in gioco non sono mancati, nella consapevolezza di ricoprire una posizione privilegiata e di grande responsabilità verso il paese. Le reazioni sono state positive e confermano che la metodologia è valida ed efficace. Si è registrato un diffuso clima di soddisfazione (anche qualche piccolo moto di entusiasmo…) e un’ampia partecipazione (ancor più apprezzabile se si considera la pressione che si vive in PCM). I dirigenti stanno dedicando l’impegno e la volontà necessari per partecipare con successo a un percorso così delicato, nonostante il peso della routine e delle emergenze continue. Il ritmo degli appuntamenti, l’impegno nel fissare obiettivi, la concentrazione nel definire i relativi piani d’azione dimostrano che la partecipazione al percorso è stata una scelta ferma e consapevole basata sulla motivazione intrinseca e sulla passione per il proprio lavoro, alleati preziosi che consentono di superare le fisiologiche resistenze al cambiamento, la fatica di “guardarsi dentro”, il rendere veri le modifiche comportamentali auspicate.

Ridisegnare il proprio ruolo in base all’obbiettivo strategico

Gli esiti paiono rassicuranti rispetto a quelli che potevano essere i fattori sfidanti e le maggiori incognite per la riuscita dell’esperienza: da un lato, la normale resistenza a intraprendere un processo di formazione sconosciuto e tendenzialmente più “invasivo” e coinvolgente rispetto all’ascoltare un docente in un’aula; dall’altro, il fattore tempo, sicuramente impegnativo per il tipo di lavoro ad alto tasso di imprevedibilità e di urgenze all’interno di PCM. Al di là dei facili entusiasmi, pare che sia davvero un passo importante per giungere a creare le condizioni per un cambiamento reale nella PA. In un mondo che vive di impegno e disponibilità personali, in un mondo che deve lottare tutti i giorni con le complicazioni della normativa, dei procedimenti, delle autorità di controllo, in un mondo in cui solo le persone posso riempire i vuoti o sopravvivere ai “troppi pieni”, vedere che una metodologia formativa soggettivamente innovativa come il coaching funziona, è presa sul serio, è fonte di reale apprendimento e di lento, ma costante cambiamento, fa ben sperare. E fa riflettere – più in generale – sulle metodologie di formazione e di change management. Potrebbe essere interessante studiare in modo scientifico i percorsi di cambiamento “people driven”, percorsi che partono dal cambiamento delle persone collocate in posizioni con elevato potere e che toccano in modo tutto sommato silente il funzionamento dell’intera organizzazione. Percorsi certamente lenti, ma – rispetto al tanto parlare di cambiamento della PA sostenuti negli ultimi 40 anni – forse più efficaci. Ci pare così utile provare a ragionare sull’incrocio tra coaching e il concetto di job crafting per dare concretezza a una nuova strada di gestione del cambiamento.

Il job crafting consente di interpretare il lavoro o, meglio, la posizione come un’entità modificabile e interpretabile, è il “ponte” tra posizione e ruolo. In generale, può essere inteso come “la possibilità da parte dei singoli di intervenire sul proprio lavoro, ridisegnando il contenuto dei compiti, intraprendendo o sviluppando relazioni interpersonali, rivedendo il modo in cui percepiscono il proprio lavoro” (Buonocore, Russo, Salvatore, 2019). Coaching e job crafting potrebbero divenire un’accoppiata estremamente interessante per la conduzione di processi di trasformazione – soprattutto in organizzazioni loosely coupled o lasche -, andando a sostituire grandi progetti di cambiamento con molti e piccoli percorsi individuali che vanno a rafforzare le competenze personali e a ridisegnare l’interpretazione dei ruoli. Coaching e job crafting potrebbero rappresentare la trama e l’ordito del “cambiamento diffuso”, del cambiamento che parte dalle persone e dal loro intervento sull’organizzazione tramite la crescita personale e il ridisegno dei ruoli e della loro interpretazione. In sintesi, immaginiamo un’amministrazione che definisce le competenze rilevanti per la propria efficacia (le core competencies), che avvia un progetto di assessment dei propri dirigenti, che individua il gap tra competenze rilevanti e competenze disponibili, che investe in coaching sia per rafforzare le aree di debolezza, sia per costruire e plasmare competenze di job crafting. Tale sequenza dovrebbe spingere e convincere le persone a interpretare il ruolo nelle tipiche modalità del job crafting. Il dirigente, ad esempio, può essere motivato a rendere il proprio lavoro più coerente con la propria personalità e le proprie competenze (come sviluppati nel coaching e, quindi, in linea con le esigenze dell’amministrazione), svolgendo il proprio ruolo “colorandolo” di valori a cui è particolarmente legato. Oppure, sulla base delle competenze di job crafting che acquisisce, avviando nuove attività non previste, ma utili, modificando attività che possono essere svolte diversamente, occupando spazi non previsti dall’organizzazione formale. È appunto il cambiamento diffuso, stimolato e costruito dalle persone che occupano ruoli di potere secondo la trama (competence crafting e job crafting competencies) e l’ordito (job crafting). Un processo di cambiamento così disegnato (se affidato a professionisti di qualità) consente di superare la logica del cambiamento come un progetto complesso e “grande” (ma anche costoso…), e di avviare un processo virtuoso imperniato sul continuo miglioramento delle persone e del loro modo di agire, disegnare e plasmare i ruoli (anche in base alle competenze giudicate strategiche), a vantaggio dell’intera organizzazione.

Una palestra di consapevolezza e apprendimento

L’incontro con un numero elevato di dirigenti afferenti a Dipartimenti diversi ha consentito di confrontarsi e di evidenziare alcune uniformità. Nulla di statisticamente rilevante, ma omogeneità altamente significative. In primis, il ruolo del dirigente della PA non si limita ad attività di carattere manageriale , ma ha contenuti rilevanti anche dal punto di vista tecnico, soprattutto se si considera che per legge il dirigente risponde direttamente delle proprie decisioni ai vertici dell’organizzazione. In secondo luogo, i dirigenti devono governare una complessità manageriale molto elevata, in alcuni casi più che nel settore privato. In particolare, gestiscono collaboratori quasi sempre non selezionati da loro e che presentano una disparità spesso anche marcata in termini di età o anzianità di servizio, competenze e motivazioni. A ciò si aggiunga la scarsità di leve da utilizzare e di strumenti per premiare la performance e il merito e per sanzionare comportamenti poco committed. La cultura organizzativa, poi, sembra orientata prevalentemente al “fare”, spesso sulla base del criterio dell’urgenza (ovvero del rispondere rapidamente a situazioni di carattere emergenziale), piuttosto che al pianificare l’agenda anche sulla base dell’importanza delle questioni. Definire, realizzare e monitorare le azioni prioritarie risulta pertanto una delle competenze più rilevanti (e complesse) da sviluppare, per cambiare tutta l’organizzazione. I dirigenti, infatti, soprattutto a livello apicale, devono gestire un carico di lavoro individuale notevole, spesso con pressanti richieste e stringenti scadenze. Tale situazione di pressione rende arduo dedicare tempo e spazio a riflessioni sull’agito, a ottimizzare processi, procedure e strumenti, a leggere con una visione di insieme le attività in corso e gli obiettivi da raggiungere. Men che meno, dedicare energie ad attività benefiche per sé, per i collaboratori e di conseguenza per tutta l’organizzazione. Il Coaching, in questo senso, ha rappresentato per i dirigenti un’opportunità tanto unica quanto preziosa, per ritagliarsi una finestra di riflessione e di allenarsi in una palestra di consapevolezza e apprendimento. Una quota rilevante delle energie dei dirigenti è destinata alla gestione delle relazioni all’interno e all’esterno dell’amministrazione, riducendo ulteriormente il tempo “buono”. La carenza di efficaci sistemi di lettura del merito e i criteri non sempre chiari di carriera (quale la tendenza dei politici al governo a utilizzare la fedeltà e la “consanguineità”) costringe i dirigenti a tenere sempre alta l’attenzione alle relazioni e agli equilibri (riprendere le riflessioni sulla separazione tra politica a amministrazione potrebbe essere necessario e, forse, urgente). L’interpretazione del ruolo non ha, invece, molti margini di discrezionalità (come può essere nel settore privato) ed è fortemente vincolato da norme e procedure che rendono il raggiungimento dell’obiettivo spesso più impegnativo del dovuto. Inoltre, i dirigenti della PA rispondono a una serie differenziata di responsabilità che vanno dalla responsabilità amministrativa a quella contabile, da quella disciplinare a quella penale. Una delle caratteristiche più tipiche della PA è proprio la “convenienza a non decidere”: prendere decisioni, assumersi responsabilità è un esercizio che richiede coraggio e, qualche volta, incoscienza. L’eccesso di regolazione, giurisdizione e controlli rendono i processi decisionali oggettivamente rischiosi e possono spingere le persone a rinviare le decisioni, a frammentarle e a condividerle con altri. Due dei tratti più comuni rilevati sono proprio il coraggio e la capacità di gestire l’ansia: una parte significativa coinvolti nel percorso di coaching è in grado di affrontare senza eccessivo timore la complessità artificiale del proprio ruolo e rendere efficace la propria amministrazione, nonostante il contesto in cui sono costretti a operare.

Gestire l’equilibrio fra vita privata e lavorativa

Nel percorso di coaching si è lavorato molto anche sulla gestione del carico emotivo e sull’equilibrio vita privata e lavorativa: la dedizione e la priorità data al ruolo professionale, l’esigenza di essere coraggiosi, l’attenzione da dedicare alle relazioni sono fattori che sono divenuti preponderanti rispetto alla vita privata o affettiva. Per molti, tempo ed energie “private” si sono ridotte al minimo esistenziale, assorbiti in modo forse patologico dal ruolo pubblico. Una tematica spesso ricorrente nei colloqui di coaching con i dirigenti è stata quella relativa alla gestione dei collaboratori in tempo di pandemia. Il lavoro da remoto ha impedito improvvisamente di utilizzare uno dei più tradizionali (e semplici) metodi di controllo (ossia il controllo visivo), obbligando i capi a impostare meccanismi di guida nuovi, lontani, ansiogeni, ossia un controllo basato su obiettivi e relazioni di fiducia. Inoltre, ha visto un’accelerazione dell’uso della tecnologia che ha reso rapidamente obsolete molte loro attività operative. La sfida dei dirigenti è stata notevole: apprendere nuove modalità di leadership, mentre si doveva governare un cambiamento rilevante della tecnologia. E l’avvento del remote working ha messo a rischio la solidità di relazioni interpersonali e la stessa dimensione umana del lavoro. In molti dirigenti è emersa una grande attenzione proprio verso tali aspetti, spesso definiti soft ma che, a ben vedere, rappresentano dei veri e propri pilastri per poter garantire qualità, ingaggio e motivazione all’interno di un contesto professionale sfidante e costantemente in divenire. Si è capito ancor meglio che non sono l’organizzazione e i ruoli a pensare e ad agire: sono sempre le persone che vivono l’organizzazione e che ricoprono i ruoli, plasmandoli con le proprie caratteristiche e peculiarità, consentendo all’amministrazione di essere efficace, a volte nonostante l’organizzazione formale. I valori del lavoro pubblico.

I valori del lavoro pubblico

Infine, proviamo a confrontare le caratteristiche rilevate durante il percorso di coaching con i luoghi comuni che accompagnano la PA. L’intramontabile enciclopedia Treccani ci aiuta: “il luogo comune è un’affermazione comunemente accettata, una opinione di cui frequentemente si abusa, una frase fatta, uno slogan, una via breve e illusoria alla pseudo-verità”. Perché i luoghi comuni hanno robustezza culturale così elevata? Possiamo ipotizzare un paio di ragioni. Una è insita nel funzionamento del nostro straordinario cervello: preferisce risparmiare, ridurre l’impiego di energia e avere l’impressione di giungere ad avere le idee chiare sulla base di pochi comodi elementi. Una seconda ragione è legata al fatto che i luoghi comuni sono portatori di una conoscenza sedimentata per somma di esperienze ripetute e, in quanto sopravvissute al pensiero critico, ritenute giuste e generalizzabili. Per una mescolanza di entrambe le ragioni, finiscono per funzionare come automatismi, come mindset di cui non siamo sufficientemente consapevoli. Se i luoghi comuni hanno una straordinaria utilità per risparmiare energie e tempo, sono una potente insidia perché possono farci restare nel loro riposante labirinto anche quando serve essere lucidi. E avvolgono di conformismo molti spazi di vita e di relazione con pensieri prevedibili e banali: dal “non ci sono più le mezze stagioni” al “non ci sono più gli uomini di una volta”, passando per “lo capisci subito quando al volante c’è una donna”. I luoghi comuni non possono non colorare anche le riflessioni sulla PA: ”Nel privato sì che si lavora, non come nel pubblico”, “sono tutti furbetti e fannulloni”, “per quello che fanno guadagnano anche troppo”, e via dicendo. L’esperienza del coaching, in questo progetto, ha consentivo di sollevare il velo dei luoghi comuni, di incontrare persone di grande valore, di capire che c’è un “cuore che pulsa”, anche nella nostra PA. Abbiamo conosciuto e lavorato con dirigenti pienamente ingaggiati nel garantire il buon andamento ai processi di cui hanno responsabilità, abituati a ritmi di lavoro ben oltre le consuete e di antica memoria “otto ore”, capaci di riempire gli spazi lasciati vuoti dall’assetto formale, disponibili a occuparsi dei problemi durante i giorni di ferie, persone motivate, convinte del ruolo di civil servant, pronte a “negoziare” e a vincere con la regolamentazione e i controlli. Non è vero che i dirigenti pubblici sono meno bravi dei privati, non è vero che lavorano poco, non è vero che non si prendono responsabilità. Non è vero. Ovviamente, non è nemmeno il caso di rendere questa lettura assoluta, rischiando di avviare la costruzione di uno stereotipo positivo, altrettanto lontano dalla realtà. Si desidera porgere qualche elemento che consenta di essere “giusti” e saper riconoscere i meriti delle persone. Meriti che, è inevitabile sottolineare, sono delle singole persone, di coloro che credono nel lavoro che fanno, nonostante un’organizzazione e una regolamentazione che “non aiuta”. Perché molti dei dirigenti della nostra PA ci credono, hanno il senso dello Stato condividono i valori di fondo del buon lavoro pubblico. I valori al centro di questa nostra PA.