10 anni
E così finisce. Dopo quasi dieci anni il mio percorso nella Comunità di Pratica di Coaching si conclude. La mia vita professionale ha preso una nuova direzione, portandomi lontano dalla pratica del coaching, ma non dai suoi insegnamenti. E’ un ciclo che si è aperto nel 2006 quando sono entrato nelle CPC e che quest’anno si chiude. Nel mezzo, tantissima vita. Professionale, relazionale, affettiva.
Frequentare una comunità di pratica di coaching è stata una delle esperienze più formative della mia vita adulta.
Per un coach all’inizio del suo percorso – come ero io quando sono entrato – vuol dire trovare guida, formazione, stimoli, mentoring da parte dei più senior; per i coach più maturi – come io sono diventato negli anni – vuol dire dare profondità alla pratica del coaching, nutrirsi del sapere degli altri esplorando altri modi e altri “mondi”: un grande campo pratica che alla fine ha un’importanza cruciale per sviluppare il tuo modo, originale e unico, di fare coaching.
E poi, oltre questo livello, ci sono state tantissime sorprese…
Innanzitutto la libertà di spaziare: poter fare ricerca, insieme ai tuoi colleghi, su temi di rilevanza aziendale, su temi sociali, su temi di sviluppo individuale e anche spirituale. Uno spazio ideale in cui fare esperimenti, i cui esiti sono sorprendenti in quanto risultato del lavoro di professioni con background differenti: coach, counselor, psicoterapeuti, responsabili delle risorse umane – tutti uniti dal linguaggio del coaching – che uniscono sensibilità e conoscenze diverse per guardare la stessa realtà, ma da angoli inevitabilmente diversi (da cui si vedono cose diverse). Ed è proprio questa diversità “l’oro” che feconda il nostro pensare, che poi diventerà il nostro agire, cioè tutto quello che porteremo nel mondo, ai nostri rispettivi clienti. Un bell’antidoto al pensiero monocorde o ripetitivo che, spesso, intossica le nostre routine professionali.
Ma i doni ancora più grandi che ho ricevuto dalla CPC sono stati di natura umana e relazionale.
E’ davvero un bello spettacolo vedere gruppi di professionisti (che sul mercato sarebbero competitor gli uni degli altri) donare con grande generosità tempo, energia, “segreti del mestiere” per dare un contributo allo sviluppo degli altri. E ricevere altrettanta ricchezza in cambio.
Vedere con quanta attenzione e delicatezza e impegno possiamo dare feedback ai nostri pari, in modo che siano utili e di valore. Completamente al di fuori, per una volta, dalla logica della competizione. O della performance. Praticando da una parte il valore della condivisione: delle conoscenze. E dall’altro quello dell’umiltà: perché accettare di mostrare come conduciamo una sessione di coaching davanti a tutti e poi accettare di ricevere feedback da tutti, bè, è un’esperienza tutt’altro che banale. Che si impara un po’ alla volta.
In questo spazio unico che sono le CPC si impara l’arte di fidarsi e affidarsi agli altri, si “depongono le armi” per mostrarsi vulnerabili, si sperimenta insieme agli altri non solo il coaching, ma anche la forza e la qualità delle relazioni. La conoscenza personale diventa stima professionale. Che poi diventa amicizia e intimità. E, se hai fortuna (io l’ho avuta), connessione profonda con gli altri.
La Comunità di Pratica di coaching è una nuova “forma sociale” ha detto qualcuno. E io sono d’accordo. Perché ti consente di usare tutta la comunità estesa come un grande laboratorio, professionale, intellettuale, culturale. Ma anche umano: vedere piccoli gruppi di persone che si sostengono e si prendono cura gli uni degli altri è uno spettacolo che scalda il cuore. E che dimostra che non dobbiamo per forza soccombere all’imperativo categorico dell’individualismo, del calcolo, del do ut des.
La CPC ti fa sperimentare, se lo vuoi, una vera esperienza comunitaria: può diventare il campo da gioco dove ognuno può allenare operativamente un “nuovo chip” di condivisione, di contaminazione, di dono (del proprio tempo, energia, sapere). Una cosa che non ti viene facile all’inizio, ma una volta che ne senti il sapore ci prendi gusto, perché ti ripaga molte volte.
E infine sono grato alla CPC perché è stato uno spazio per fare pensieri di qualità, sottratti alla velocità delle nostre vite frenetiche, un “bolla di connessione” con altri essere umani, che cercano di capire come essere più umani. E come portare questa qualità ai loro clienti.
Mi viene fra le mani una frase con cui chiudo, che mi ricorda qualcosa di prezioso dei miei incontri in CPC
“In un’epoca di accelerazione niente è più eccitante dell’andare lenti. In un’epoca di movimento costante niente è così urgente come stare immobili a riflettere. In un’epoca di distrazione niente è più urgente dell’essere attenti”. Pico Ayer
Buona CPC a tutti.
Autore: Guido Poli